domenica 20 settembre 2009

Intervista critica!


Enrico Ghezzi, uno dei più apprezzati critici cinematografici, oggi in visita al “Festival de Noantri”. Lo abbiamo sottoposto ad una intervista a tutto campo.

D - Quali sono le novità più interessanti di questa edizione de “Er Festival de Noantri”?


R - Er Festival de Noantri non è mai stato un festival di realtà, come non lo sono mai i grandi festival. La cosa curiosa è che ha sempre avuto retrospettive di gran lunga più post-spettive dei grandi festival, inclusa Venezia, dagli ultimi 50 ai prossimi 100 anni: a volte su un autore, a volte su registi straordinari, l’anno scorso Buñuel, a volte fanno anche cose di genere, oppure “tagli particolari” nella storia del cinema, tipo cancellare tutti i film dal 1921 al 1985, così tanto per il gusto di farlo. Poi ci fu una bellissima retrospettiva sul cinema a scoppio, antesignano di quello elettrico, abbandonato per questioni di inquinamento nelle sale cinematografiche d’epoca e quest’anno ce n’è una, secondo me imperdibile, sui 70 millimetri e sul cinema “bigger than life”, il cinema che cercò di dilatarsi per contrastare la diffusione capillare televisiva, da una parte, ma soprattutto per far sembrare più alto Brunetta, dall’altra. Ci sono film come “Tutti insieme ammorìammazzati”, futuristica pellicola del 2001 e non solo americani, che rappresentano un tentativo di gonfiare tutto il cinema a una grande dimensione: quella della mongolfiera. Sarà un momento molto lontano dal cinema che si fa e si pensa oggi, tutto per la domesticità o comunque per le microsale, per i pc, per i palmari, per gli orologi da polso. Oggi si vede, in parte, il cinema assolutamente tecnologico dell’Imax che ancora non ha raggiunto i propri potenziali, oppure quello diffuso da telecamerine, quel cinema che si può mandare da un internet point: quello che io definisco il cinema del non-schermo.



D - Dato che ci sarà anche Terra Madre di Olmi, sarebbe interessante capire cos’altro c’è ancora di importante quest’anno per quel che riguarda il genere documentario.


R - Purtroppo, in generale, la quantità delle scoperte è minore della quantità delle coperte, tranne la conferma di alcuni nomi, di alcune possibilità di cinema e di alcune pratiche d’autore anche consolidate, da un certo punto di vista quasi scontate. Soprattutto al Festival de Noantri, dove si vede da diversi anni, nella sezione Cloroformium e ancor più in Dorm-o-rama, una quantità enorme di film coperti. Così è apparsa una continuità molto forte, molto ribadita, molto produttiva, nel senso della produzione del festival, della fiction, della non fiction, della non fiction accanto alla fiction, della fiction di lato alla non-fiction, della non fiction sopra la fiction, quindi non andrei mai a un festival per vedere dei documentari scoperti, come non andrei a vedere dei film di fiction coperti. Personalmente mi tolgo da queste differenze che trovo del tutto fasulle oppure commerciali, distributive, di comodo e che comunque, sono superate da anni, così come quando è stato, negli anni recenti, il primo festival a premiare Coni Azotati un film di animazione, come miglior film. Diciamo che sono veramente dei confini, dei paletti che non hanno molto senso. Comunque sì, al Festival de Noantri ci sono di solito molti documentari e mi pare ce ne siano anche quest’anno. Il fatto stesso che li qualifichiamo parlando di documentari rende meno interessante la cosa. Davvero credo che tutti i film siano documentari, tutti siano film di fiction, come di non-fiction, tutti siano non-film di non-fiction come anche viceversa, e resta a noi declinare questa differenza momento per momento, addirittura scena per scena, cercando di comprendere sino in fondo cosa ho appena detto, se sarà possibile.



D - Quindi come giudica la dichiarazione di Olmi di volersi dedicare solo al genere documentario?


R - Olmi ha rotto le palle. L’ultimo, I Cento Chiodi è un film, da una parte visibilmente di fiction, e io glielo ho detto chiaramente, che ha un assunto e un apologo, dico visibilmente perché è volutamente visibile, scarno, banale, molto diretto, come gioco o situazione narrativa. E poi però diventa un documentario sulla non-fiction nella pianura Padana e non si capisce più nulla…. E lui ancora lì, sul restare di alcuni colori, sul restare di alcune acque, sul restare di alcuni tramonti, sul restare di certa vegetazione e di certe persone…. Olmi è sempre stato in questo senso filmico anche quando ha raccontato storie che sembrerebbero più documentaristiche, dalla imprevedibile messa in scena della Leggenda del santo bevitore, oppure in quello su Giovanni dalle Braghe Nere, un film in realtà completo di situazioni di spostamento del cinema in una zona dove si immagina il passato come presente e in cui il passato viene invocato quale presente. Il film di Olmi, che non ho ancora visto, sarà spero bellissimo e sarà film a tutti gli effetti del documentario. Questo se serve per avvicinarsi alla questione o alla polemica dei pochi film, o nessun film italiano.



D - In riferimento a questa polemica, lei come risponde all’affermazione di Kosslick che definisce il cinema italiano cinema “culinario”?

R - Kosslick m’ha stufato! E’ un direttore di Biennale se vogliamo, perché è stato “culinario”, nel senso che prosegue, lo dico in senso divertente e affettuoso, un’apertura alla curiosità da parte della Berlinale e, dicendo “culinario”, lui parla di se stesso, della Berlinale stessa, perché è da due o tre anni che la grande novità, consiste in una rassegna con alcuni film presenti al festival e alcuni film in più (tra l’altro c’è anche il film di Olmi) che vengono proiettati in una specie di sala ristorante, un appuntamento a cui non sono mai stato perché si perde tempo con orari e spostamenti e si mangia veramente da schifo. Ci andrei anche, ma mi sembra ridondante. Quindi “culinaria” è la Berlinale, culinaria è perché già dai tempi di de Hadeln, il direttore precedente, era una selezione molto politica, attenta alla casualità della politica, alle scelte casuali da un punto di vista estetico e culturale indirizzate dalla necessità dell’invenzione politica e dal tema dell’anno. Non c’è una grandissima selezione dal punto di vista della qualità. Spesso dimentico nel giro di due ore, due giorni o di due mesi i film vincitori della Berlinale. Questo può capitare anche con Venezia, con Cannes. Non con il Festival de Noantri. Diciamo che la cosa clamorosa, il dato di spicco di Berlino è che non inventa mai, non trova mai una cinematografia, un autore davvero nuovo, anche se è l’unica volta in cui è stato premiato e ha avuto un riconoscimento pubblico con l’Orso d’Oro un genio come Malik con Thin red line (La sottile linea rossa), però non è in qualche modo la qualità della selezione che le si può chiedere. È una sorta di curiosità diffusa quella di Berlino, dove il bello sono i numeri, le quantità che comunque danno la possibilità, questo come a Rotterdam - dove sono appena stato - di aggirarsi e di trovare. L’altra cosa importante di Berlino è quella di essere un festival cittadino; vai al cinema e sei in mezzo a un pubblico che affolla tutti i giorni le sale, anche se non ci va mai veramente, poiché non è questa la norma del cinema negli ultimi anni: andare al cinema e non vedere, standoci. Però il pubblico che ci va è un pubblico di giovani, di studiosi, non un pubblico composto solo da professionali o da qualche curioso di star o del cinema stesso, visto come probabile glamour, come avviene a Cannes. Non è la stessa cosa di quel cinema dove vanno gli appassionati del “corto da festival”, quelli che vanno a Venezia, dove peraltro troveranno la solita scelta di film americani, di sei, sette, otto, nove ore, per dire che comunque il grande cinema Usa dei corti è piuttosto lungo e un po’ palloso. È un festival che è più liberamente percorso da pubblici diversi e questo ne fa la forza, è un momento di cinema anche nel modo di vedere i film: con gli occhi aperti e davanti allo schermo, non dietro come ci si ostina a fare in omaggio alle nuove tendenze…



D - Non pensa sia un Festival che può vantare una certa apertura nei confronti dei giovani, un pò come il Trumpet Festival di minneapolis ?

R - Certo. Non è che l’abbia visitato spesso, sono andato quando c’erano incontri con personaggi che mi interessavano. Poi c’è addirittura il cinema per bambini. Diciamo che il pubblico potenziale passato e futuro è tutto mobilitato, dalle retrospettive al piccolo cinema per ragazzi. È questa la qualità del Festival de Noantri, non è la qualità di un film o dell’altro e Kosslick, per finire sulla culinarietà, non mi sembra il tipo che possa permettersi un giudizio estetico così sprezzante, anche se era una battuta, nel senso che la sua è una direzione molto burocratica. In Italia non si sceglie mai una direzione autoriale davvero fino in fondo, ma semmai un ottimo manager che sia anche un cinefilo, una persona un po’ di cultura per farne una sorta di feticcio, peraltro provvisorio, sottoposto alla mancanza di autonomia assoluta. Qua invece c’è un buon burocrate che coglie l’occasione di questa direzione giocando proprio la carta della città, giocando la carta della curiosità.



D - Una domanda su Chabrol, dato che lei ne è un grande conoscitore, ha visto il film che verrà presentato al Festival de Noantri?

R - No….


D - E perché, cosa aspetta?

R - Da Chabrol mi aspetto sempre moltissimo, compresi i biglietti gratuiti, che per ora non ho ricevuto. Mi aspetto moltissimo anche quando è quasi nulla, quando gira un film tratto dalla vita delle locuste, un soggetto che sembrerebbe coperto, a parte che mai nessun soggetto suo mi sembra scoperto. È’ talmente già interessante il modo in cui si interessa a un soggetto che non mi importa se sia un piccolo poliziesco, c’è sempre un suo segreto. Per me, in questo momento, è probabilmente al mondo l’unico esponente di un cinema di pura regia, di puro mistero del farsi cinema, al di là del racconto, al di là del cinema di genere, che lui pratica moltissimo. È oltre Hitchcock in questa dimensione, è veramente una figura estrema, veramente isolata, paradossale, che nel cinema si chiamerebbe commerciale, ma poi non è vero fino in fondo perché ha i suoi scatti. Lo considero forse il cineasta più inimitabile che esista oggi al mondo, proprio perché non è un’inimitabilità dovuta all’evidenza di una forma propria, non ha una sua evidenza tematica o stilistica: è di più, è più vicino a una personalità del cinema assunta con un occhio quasi automatico, che fa molta paura per la precisione. Ci sono stati film che tagliano, film in qualche modo dolorosi, ma poi godibili nello svolgimento per il modo in cui dipanano l’uso dello spazio, l’attenzione agli attori, lo trovo un grandissimo cinema dell’ambiguità. Insomma, Chabrol non lo reggo proprio.


D - Cosa manca al cinema veramente oggi?


R - In pratica quello che manca più radicalmente al cinema oggi è il presente. Il presente che era del passato del cinema: era un passato. Una nozione di presente piuttosto impervia. Qui risiede il maggior fascino del cinema: un tentativo pochissimo riflesso, spesso del tutto industriale e automatico, di trovare un terzo tempo tra il tempo del presente in cui si produceva un film, il tempo in cui sarebbe stato visto e il tempo cui si riferiva ciò che veniva filmato.Solo apparentemente contemporaneo. Solo la televisione alla fine ha trovato la diretta, il cinema in diretta. Che poi è un fantasma attuale del cinema on line. Il cinema dei telefonini. Si sta già facendo il cinema in diretta e ovviamente più è in diretta e meno lo vedi.Una grossa differenza rispetto a prima!Un tempo il cinema aveva un suo presente: il presente della sala di proiezione. Non era come il teatro. Il rituale della convocazione nella sala buia a quella data ora. Ora invece il cinema assomiglia sempre di più al teatro. Basta vedere le salette d’essai.Ma l’importante è rendersene complici non far finta di fermare il cinema. Ci sono un sacco di menzogne sui festival… di false ideologie. Il lancio di un film che serva al bene del film. Ovvio che ci sono delle piccole strategie e piccole tattiche. Ormai anche i festival più importanti hanno ridotto la nozione di prima e anteprima e post-prima. Un film può avere trenta anteprime tra festival minori e maggiori! E come si fa! Entra in un circuito come lo può fare la musica jazz o una qualsiasi altra forma d’arte. Solo che il circuito del cinema è più interessante perché comunque più ambiguo. Ha ancora una forte intensità mitica anche se tutto ciò si va rarefacendo, dunque cambia anche la percezione da parte di tutti noi.Suona un po’ come un requiem per una morte annunciata!Non è questione di morte del cinema. Occupa uno spazio completamente diverso. Attualmente è a metà tra l’arte contemporanea e l’opera. Una sorta di sublime anacronismo come l’opera, che riesce a vivere solo attraverso grossi finanziamenti statali e l’arte contemporanea che è una specie di bolla di sapone che però nasce a Wall Street. Per me l’immagine dell’arte contemporanea sono le Twin Towers che bruciano e crollano che sono vere e sono una bolla di sapone.


D - Parafrasando una sua frase “Non è il tempo a mancarci, siamo noi che manchiamo al tempo” possiamo allora dire che siamo noi che manchiamo al cinema?


R - Quando dissi quella frase ero molto giovane e non immaginavo che nessuno l’avrebbe mai creduta una cosa seria, allora ero un burlone… ma sicuramente manchiamo al cinema nel senso di disincanto di una programmazione di cinema. In definitiva ritorniamo al discorso di prima: manchiamo al presente. In quanto non ci rendiamo conto di quanto apparteniamo al cinema. Quando durante i festival si enfatizza il circo mediatico del cinema: appunto le feste del cinema, l’enfasi sugli attori e così via, cose peraltro da sempre esistite, non si fa altro che dimostrare quanto possano essere vecchie. In definitiva il cinema arranca dietro queste situazioni di feste e festival della letteratura o della poesia o della musica che a loro volta sono imitazioni di festival cinematografici! E, delle due, l’una: o il cinema è passato, o il cinema è presente; non esiste una terza via come ho detto poco fa. E chissà poi perché l’ho detto. Lei ne sa qualcosa per caso?Comunque una strana situazione di feste o festival che vorrebbero citare cose già citate ma che non riescono a farlo perché sono già state citate…A questo punto l’unico specifico del cinema è di rendersi conto di essere in un modellino, se vogliamo essere tristi, o un “modellone” al quale non possiamo mancare perché già ci siamo. Quando accetto l’ipotesi di mancare al cinema intendo quando non si riconosce la terribile, straautomatica ma anche tenera presenza nel cinema. Se lo si considera come un industria come modo di produzione il cinema è stravecchio. Assolutamente senza interesse. Naturalmente c’è chi lo fa. Siamo amici di cineasti, siamo cineasti noi stessi. Paghiamo e siamo pagati. Non per questo si deve considerare il denaro sublime. In questo senso l’organizzazione capitalistica è mortale. Allo stesso tempo facciamo il cinema come si faceva 50 anni fa. Sono gli stessi registi e penso a un Wenders o a un Lynch che con un ritardo che oscilla dai 10 ai 30 anni si rendono conto di come poi l’immagine non sia poi così orribile, così banale, “facile”. Per motivi magari di costi, o proprio perché ancora non avevano capito niente…



D - In un suo libro scritto con Carmelo Bene lei ha anche detto: “Per questo mi appassiona il cinema porno. Perché è più vicino a Warhol, è più vicino alla “macchina aperta e me ne vado a dormire”, che in parte era di Rossellini. E’ davvero così il suo cinema ideale?


R - Non proprio. Non è che io creda sempre in ciò che dico!! E’ una delle derive estreme. Certo che quello che Warhol ha fatto è quanto di più vicino all’assumere su di sè quello che appunto chiamo l’impersonalità del cinema. Forse sul cinema è stato ancor più capitale che su altre cose. Non è superato. Non è un ideale di cinema. E’ un tipo di cinema magari infinitamente meno godibile di altri. Certamente è il primo cinema che si pone come un tratto di quel film ininterrotto che può essere il mondo.Adoro anche film molto montati. Non ho un modello. Però sicuramente una delle cose più intense, fra quelle che amo di più del cinema è quello di “risentirsi” in una specie di materialità spazio-temporale. E, se mi spiegate anche questa frase, ve ne sarei grato.



D - Ma cosa pensa di quei registi la cui presenza è così avvertibile nei propri film e sono così riconoscibili nel loro modo di girare e dunque così personali, ad esempio un Peckinpah, un Carpenter, un Hitchcock? Combattono o subiscono questa specie di inanità, di voler essere presenti nelle loro opere?


R - Non subiscono. Sicuramente non vogliono. Sarebbe insopportabile un cinema di soli Warhol. Il suo è un cinema fisico-teorico sicuramente diverso dal modo in cui un Carpenter si rende conto in modo diverso, al di là dell’omaggio cinefilo di quanto ci sia già di depositato nel cinema come fatica e di modi di vedere che abbiano già coinvolto milioni di persone. Se pensiamo a un suo film maledetto come “La Cosa” è evidente di come Carpenter sia uno di quelli che avvertono di più la fantomaticità del cinema: Da una parte il corpo, la fisicità, dall’altra l’essere costantemente trapassato in una sorta di empireo-inferno. Persino un suo film che sembra essere così politico e diretto come “They live” c’è in realtà questo gioco della visione. E’ la non indifferenza dell’immagine. Una continuità in questi due film. Una lotta tra il considerare l’immagine nel suo automatismo, nel suo essere fatta dalla macchina e il considerare l’immagine come frame assolutamente individuato e preciso. Questo vale sia dal punto di vista dello spazio langhiano o "kubrickiano" sia dal punto di vista più semplice di autori come appunto Carpenter ma penso anche all’ultimo film di Peckinpah “Osterman Weekend” che consegna in modo del tutto inatteso una tale coscienza della situazione politica del vivere l’immagine, dell’essere in qualche modo immagine che cerca di uscire per poi rientrare in un altro frame, che è sorprendente in un cineasta di malinconia quasi ottocentesca. Il non poter tornare più in certi spazi, altrimenti trovi qualcuno che ti mena. Ho da poco rivisto “Pat Garrett e Billy the Kid” e non è altro che questo: il dover sempre rientrare in una situazione mitologica obbligata. C’è questa sensazione di sfinimento sottolineata molto da Bob Dylan.In realtà molti cineasti sentono questa “fatalità” del cinema. Il fatto che qualunque immagine diventa non loro e non lo è all’inizio, poiché quello che riprendono non dipende da loro. Neanche un Lang o un Kubrick possono aver potere sulla vita di un attore prima che cominciasse a lavorare per loro. Se esistesse una perfetta marionetta elettronica non c’è dubbio che Kubrick ne avrebbe già cominciato a lavorarci.



D - Ma possiamo dire che l’immagine come istituto del cinema non l’abbiamo scoperta noi? C’era, c’è e continuerà ad esserci nonostante noi?


R - Il destino dell’uomo visto moltissimi pensatori è alla fine quello di riconoscersi nell’immagine, ma il senso è saper vedere. Certo è una cosa interessante dato che non sappiamo cos’è. E’ un concetto che siamo costretti di volta in volta a far valere in un modo o nell’altro: a vanvera, direi. Non a caso è stato uno dei grandi terreni di lotta nel medioevo: penso all’iconoclastia, al concilio di Nicea. Un’ immagine che è sempre troppo in bilico tra ciò di cui sarebbe immagine (una sorta di trompe l’oeil) e tra un’immagine troppo lontana quindi sgranata e indistinta. L’immagine è una nostra forma simbolica che è puro pensiero. E’ un orizzonte. Un destino che ci provoca e ci attende.D - E’ qualcosa che non si potrà mai raggiungere oppure è uno dei nostri scopi il cercare di raggiungerlo?R - Non lo so se sia il fine. Trovo fatale che se ci si interessa al senso inteso come direzione piuttosto che al senso in se, oggi ci si possa solo scontrare con l’immagine o aspettare che ci venga di fronte e allora è l’apocalisse! Meglio allora frenare e accontentarsi e restare coperti, guardinghi e senza coltivare l’illusione che per forza quello che si vede possa avere un significato, o che quello che ho detto finora significhi qualcosa.

6 commenti:

  1. graziano, tu sei un genio. no, dico... tu sei un genio! lasciami dire, per cortesia: sei un ge-nio! g-e-n-i-o. tu, o chi per te ha "raccolto" questa eccezionale intervista, sei semplicemente, indubbiamente, incontrovertibilmente, spudoratamente un (due? tre?) genio. e buonanotte. e io, che non riesco a "postare",qualunque cosa voglia dire postare, sto cazzo de commento, mi sento in questo momento un completo deficiente.

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  2. non posso che essere d'accordo col parere espresso dal collega giurato. Genio, sì'.
    Certo ci sarebbe anche la possibilità B) e cioè che tu stia definitivamente uscendo fuori di testa, e che essa (la testa), come piroettando vorticosamente su se stessa prima della fine, stia sparando fuori a mò di centrifuga ogni frammento di materia pensante in essa contenuta in ordine sparso, prima di spegnersi insieme alle ultime scintille d'attrito.
    A tale proposito ho veramente bisogno di sapere quanto tempo ci hai messo a scriverla, questa folle e gidibilissima intervista, ai fini di una corretta anamnesi.
    Aspetto i dati, nel tuo interesse.

    eccerto che Ghezzi dà lustro, non c'è che dire.

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  3. ecco, io invece sarei seriamente preoccupata: ma quando la notte non dormi, senti le voci, hai delle visioni, non so, ti appare la madonna o appari tu a lei, c'è un'entità che ti possiede e guida la tua mano frenetica sul foglio...???
    (non sparire su un'astronave, per favore).
    Silvana

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  4. almeno non prima di averci dato i risultati d'er festival

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  5. Io no genio. Io copia-incolla vera intervista di E.G. e impiegato dodici minuto. Io no sparire prima di risultato. Io no vedere Madonna, no piace baldracchetta in mutande che ballare su palchiscenici.
    Io ciao,grazie.
    Io diventato così dopo aver provato haccapìre intervista di E.G.
    Io... ciao-grazie-tutt'uno-avvòi...

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  6. ...ghezzi sì...però....ma nun era mejo una bella intervista ad alvaro vitali?...almeno era meno difficile da seguire!
    Babba

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